la strada la conosci

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L’altro giorno è venuto da me il tempo. Abbiamo
fatto quattro chiacchiere, bevuto due bicchieri assieme,
giocato lunghe mani di carte e per finire, fumato il narghilè.
Ehi, aspetta, mi ha detto a un certo punto, ho due cose da fare.
Io gli ho detto, prendi le chiavi la strada la conosci. Non è
cambiata. Così è sceso giù, in fondo, in fondo e quando
è tornato qui mi ha dato i soldi che sarebbero bastati
per parecchi giorni. Poi, mentre se ne stava andando
ed era ormai sulla porta, mi ha raccomandato di innaffiarlo:
se stanotte non torno devi annaffiarlo domattina, all’alba.
E io lo annaffio ogni volta che il sole sorge, onoro sempre la parola
data a un caro amico. Il metronomo del tempo si deve annaffiare
con l’alba. La vernice bianca si squama il ciliegio
si gonfia ed esplode. I tarli lo hanno bucherellato nei fianchi.
L’ago si è ammosciato, ridotto a un minuscolo
obelisco abbattuto. Il metronomo del tempo è nel centro
di un vassoio di plastica, il vassoio è sul fondo
della vasca da bagno della stanza che faccio pagare poco.
Questa vasca ha i piedi della bestia,
piedi che, ogni tanto, sbattono con forza
sul pavimento e così il fracasso arriva fino a quassù.
A volte il rumore è così forte che sveglia gli altri miei ospiti.
Nella stanza che faccio pagare poco c’è una feritoia
da cui entra una leggera luce, è sempre rigogliosa
la siepe delle spore. Il salnitro schiuma dalla carta
da parati. Dalla schiuma escono delle teste
di vecchi sdentati con la barba gialla, giovani che portano
l’apparecchio e hanno primi peli in faccia, donne
con il trucco verde attorno agli occhi. Bambine
che sembrano bambini, che sembrano donne. Mi sentono,
quelle facce, quando sto per aprire la porta
e così si fanno tutte zitte.
Io allora entro e le saluto con la massima cordialità.
Mentre innaffio il metronomo del tempo provo a
fare due chiacchiere con loro ma raramente hanno voglia
di parlare. Nel frattempo il traffico sopra di noi
non conosce interruzioni, non conosce alcuna pietà.
Da questa feritoia intravedo la vecchia fabbrica,
la vecchia fabbrica che non ce l’ha fatta.
Intravedo la piccola stazione vicino alla fabbrica;
hanno fatto entrambe la stessa fine: fronde gialle: acacie
e noccioli come spazzole da scarpe. Il cielo, da queste parti,
ha il colore spento del cartone bruciato. A volte anche io
mi sento solo e non serve a nulla rifugiarsi in una delle stanze
dei miei ospiti. Non vale a niente la loro compagnia. Quando
mi sento solo vado a bussare alla porta di quella stanza
che faccio pagare poco. E se sono fortunato lo sento,
è lui, dall’altra parte. È il tempo. A volte ride,
dietro a quella porta, altre ancora piange e singhiozza.
A volte parla, potrebbe sembrare che parli con se stesso,
come un pazzo, le cose non stanno messe così. Mi parla.
Parla e parla, e posso capirlo. Devo solo prestargli
la dovuta attenzione perché parla una lingua lenta
come la noia (o veloce, come l’elettricità), una lingua
che ogni persona, con un po’ di allenamento, capisce
a modo suo; capisce nel modo
che le spetta. Come quando
si fa l’orecchio ai bambini più piccoli.

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