linoleum

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Il Mc Donald’s ha rimpiazzato la vecchia
caffetteria; una moltitudine di giovani
con il cappellino in testa: asiatici, dell’Africa e dell’Est
Europa stanno là, dove per tutti gli anni della mia vita,
ho visto quel vecchio dalla frangia grigia. Ha messo
le sue insegne gialle, Mc Donald’s, e dei larghi tavoli
di plastica scivolosa; il linoleum bianco sporco ha
sostituito le maioliche smaltate. Nel luogo dove
per lunghi anni una confortevole ombra
ha galleggiato, si è insinuata, munifica coltre
tra ferrovieri, vetturini, tazze grondanti, nasi fumanti,
passeggeri di ogni schiatta, di ogni tempo, ora sta
una luce alogena capace di sbiancare qualsiasi volto,
di contrarlo; entriamo là dentro e ci fanno indossare
a tutti la stessa faccia. Non è rimasto nemmeno
un incerto stampo nella pittura sulla parete che ho difronte,
non una chiazza, una parvenza di memoria quando,
per un secolo almeno, i flussi, e i deflussi umani,
sono stati sovrastati dalla credenza di legno, immobile,
cesellata; e dai flaconi che la tempestavano come occhi
di vetro opaco. Ti ho pensato mentre ero da Mc Donald’s.
Ho avuto un flashback: Il mio telefono stava squillando
e quando rispondevo eri tu che mi dicevi sto
tornando; a quel ciao non ne posso più, seguiva
il non ho voglia di cucinare, non ho voglia di mangiare
la roba che abbiamo a casa; mi piacerebbero le patatine
di Mc Donald’s. Era vicino a casa nostra Mc Donald’s.
Mc Donald’s è da tutte le parti, è lo stesso Mc Donald’s
ed è dappertutto. Non importa da dove vi si acceda.
Il cibo è lo stesso e, te ne accorgerai ponendo
la dovuta attenzione, ovunque sono gli stessi commessi
dallo sguardo sfuggente (nascondono la verità).
Vi si accede, ho ipotizzato, attraversando dei varchi,
come se si entrasse in una stanza che ha molteplici porte
ognuna delle quali è collocata da qualche parte
nel mondo, sono separate da chilometri di distanza le une
dalle altre. Facile, no? Ce ne era uno, di questi varchi,
a poche centinaia di metri da dove vivevano quei nostri
amici diplomatici. Per raggiungerlo percorrevo
il sentiero di fango che seguiva l’argine del fiume
che ribolliva, quasi immobile e l’acqua era verde
come la pelle di un morto e non sapeva, poveretta,
quale direzione fosse la migliore da prendere,
se mischiarsi ad altra acqua, raggiungendo Nan Hai,
il mare del sud; oppure rimanere in quella metropoli,
sovrastata dalla voragine del cielo; con quei grattacieli,
pronti a precipitare in un bagliore latteo tramutati
in una tempesta di specchi luccicanti e insetti metallici.
L’acqua, altrimenti, se ne sarebbe potuta tornare
da dove era venuta – come prima cosa avrebbe
attraversato le campagne, le campagne dove
magri bambini usano delle lance elettriche per stordire
i pesci gatto. Sull’argine c’erano decine di bancarelle,
ogni sera se ne stavano là come fenicotteri di ferro,
nutrendo centinaia di passanti. C’era chi preparava
le ostriche. Ribollivano nei loro umori, le ostriche,
una volta che erano state disposte sulla griglia
intermittente. La loro carne si rapprendeva e così
è la morte, la diminuzione del nostro grado di libertà,
una mancanza di libertà. Le melanzane ricoperte
dall’aglio tritato fumacchiavano sul carbon coke
e là, in un angolo al loro fianco, l’effetto del calore gonfiava
calamari e altre bestie precedentemente essiccate nel vento.
Quale doveva essere la direzione da imprimere alla nostra vita?
I turisti cinesi si siedono al tavolo vicino al mio,
ho evitato di mettermi vicino a una delle grandi vetrate,
altrimenti l’immagine della linea ferroviaria che conduce
al mare e a terre aspre e sconnesse porrebbe fine
a questo mio miraggio – guardo le loro mani,
le mani di questi turisti cinesi, e c’è una anziana signora,
c’è un porro bluastro sulla sua mano sinistra, beve
succo di fagioli rossi, che è per loro il nostro succo
all’albicocca. Appena avrò finito il mio hamburger
mi alzerò da qui tenendo lo sguardo fisso per terra,
non lo alzerò nemmeno quando sarà giunto il momento
di spingere la porta e uscire all’aria aperta. Sarà
in quel momento che sarò messo al corrente
della mia sentenza, la sentirò sulla pelle, l’ombra mediterranea,
ascolterò il locomotore a gas e ogni voce addensarsi
attorno a me in un rumore azzurro. Chiuderò gli occhi
prima di uscire e chissà che per qualche prodigio
elettrico, per un magnetismo capace di attrarre a sé
l’esistenza e riplasmarla, io non mi trovi d’improvviso
da un’altra parte. Allora, senza alcun turbamento,
riaprirò gli occhi e davanti a me ci sarà quel sentiero di fango,
io allora lo seguirò a ritroso, per raggiungere il compound
dove abbiamo vissuto per quasi un anno. Avrò
attraversato ottomila chilometri in un solo passo.
Supererò la guardiola, il tornello, raggiungerò
il campanello, dopo aver suonato qualcuno, dall’altra parte,
risponderà, non so se sarai tu, la tu del tempo
che se ne è andato. Non attenderò di sentire quale sia
la voce capace di accogliermi. Dirò che ho comprato
due porzioni di patatine di Mc Donald’s e che
le ho con me, nel fondo di un sacchetto di carta.

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