nella stanza dei menhir

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Il corriere è passato questo pomeriggio. Ci vorranno
quattro giorni, ti dico al telefono, perché tutto sia da te.
A Shanghai la pelle del viso ti si screpola, il clima
è più secco che a Canton. Nel vano di carico, i tuoi
dodici colli vengono mischiati ad altri cento colli.
Cerco di tenere a mente quali siano quelli
che contengono le tue cose ma non ci riesco,
si confondono. È la tua vita, quella nei dodici colli
che si mischia ad altra vita. Divisa, per il momento,
dalla nostra vita. Bianchi erano bianchi, i nostri armadi
– ora sembrano di fredda pietra lunare, l’umida brezza
è arrivata dal balcone, si è posata sulle mie spalle
come una vecchia coperta. Se ne stanno nell’altra stanza,
uno affianco all’altro, ritti come menhir, i miei armadi,
la luce che tracima dalla finestra si spalma sul pavimento,
loro si sono messi sulle punte dei piedi ed è
per questa ragione che con le loro teste arrivano
a sfiorare il soffitto. Cerco di non andarci, di là, nella
stanza dei menhir, ho paura che vedendomi possano
prendere paura – perderebbero l’equilibrio, non voglio
che mi cadano addosso. Ho spostato il computer
in soggiorno, ora lavoro su quel tavolo dove
abbiamo cenato senza dirci altre parole che
buon appetito. – La porta che divide il soggiorno
dalla stanza dei menhir ha un sigillo di quiete. Eppure
se ora la spalancassi, d’improvviso, e raggiungessi uno
di quegli armadi – se io poi lo aprissi, senza tentennamenti,
chissà con quale maleficio, vi troverei dentro le tue cose,
nel disordine e nei colori caldi che contraddistinguono l’esistenza,
là come nelle giornate che hanno preceduto la tua partenza.
Sarebbero le stesse cose, io credo, ma non sarebbe la stessa vita.
L’odore dell’asfalto bagnato, l’odore dell’ultimo taxi
per l’aeroporto, per un momento, si alzerebbe davanti a me,
si dissolverebbe nelle lingue della mia memoria, su tutto
scenderebbe la stessa sonnolenza.

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