pecore, draghi, astronauti

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Seduto sul bordo del letto ho preso tra le mani
la rivista. La copertina ritraeva una ragazza
dai capelli rossi come carote. La ragazza
si stava allacciando le scarpe. La si vedeva
di spalle, indossava degli short verde
militare, le gambe erano bianche come cera,
in tensione come corde di ferro, era un esercizio
di yoga? Si vedevano le cordicelle gialle
del tanga e una feritoia di luce era messa
tra le cosce serrate. La faccia della ragazza
si trovava a sinistra del ginocchio sinistro,
lei così poteva guardare chiunque
la guardasse. Sorrideva ma
non le si vedevano i denti, anzi,
il suo sguardo si concludeva alcuni centimetri
dietro di me e questo mi faceva sentire come se
ci fosse qualcun’altro nella stanza. Stringevo
la rivista tra le mani e potevo coprirle la faccia
con il pollice. Quando lo facevo solo una cornice
di capelli restava a galleggiare sullo sfondo
turchese. Schiacciavo quella faccia
come avrei fatto con una delle pulci del gatto.
Forte, perché solo così avevo la certezza
che non avrebbe più potuto fare il balzo.
Poi mi misi a guardare la donna distesa
sulla pancia accanto a me. Nuda e fresca,
fresca come una pietra inerte nel greto
di un fiume. Stava leggendo, aveva le cuffie
sulle orecchie. La musica mi raggiungeva
come se quella fosse stata una macchia,
come quando ci si trova sott’acqua e le pale
di un motoscafo si avvicinano e il suono rimbalza
sulle pareti del lago di origine glaciale.
Buttai la rivista per terra e mi distesi del tutto,
a quel modo potevo guardare il cielo negli occhi,
quel cielo che, sopra noi due, spingeva
sul lucernario per entrare con tutto se stesso.
Le nuvole su di lui, e i tagli aperti tra le nuvole.
Mi tornò alla memoria una giornata
della mia infanzia, stavo sdraiato con mia madre
nell’erba alta e umida, insieme davamo un nome
a tutto ciò che scorreva nello schermo azzurro.
Pecore, draghi, astronauti, gabbie, fiori, farfalle,
scheletri, motociclette, diavoli. Alla stessa visione
davamo nomi del tutto diversi.

 

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